Nasce Jeremy … insegnare l’inglese a bambini disabili Pubblicato 21 giugno 2013 | Da Piero Vittoria

30.08.2013 18:39

Nasce Jeremy … insegnare l’inglese a bambini disabili e non con il teatro: la loro reciprocaintegrazione l’obiettivo della neonata Associazione di volontariato. Intervista con il Presidente Davide Aletraris

PESCARA – Nasce a Pescara Jeremy, l’Associazione di volontariato che si prefigge lo scopo di insegnare una lingua nuova come l’inglese ai bambini disabili e non, in modo da favorire la reciproca integrazione di due mondi che a volte sono troppo distanti. Il mix fra conoscenza della lingua inglese e spettacolo teatrale (che per alcune parti vedrà ragazzi disabili e normodotati recitare insieme) aiuterà così sia le persone sul palco che gli osservatori a capire quali sono le reali potenzialità di questi ragazzi, e loro stessi potranno così aumentare l’autostima.

L’associazione Jeremy è dotata di personale qualificato quali psicologi, sociologi e volontari, i quali, ognuno per le proprie competenze, cercheranno di fare sentire i bambini disabili a proprio agio, portarli ad imparare l’inglese e a recitare facendo in modo che siano soddisfatti e soprattutto felici.
Fra ragazzini che impareranno l’inglese, siano essi disabili mentali, fisici o normodotati, si cercherà di creare dei gruppi omogenei che potranno raggiungere lo stesso grado di comprensione della lingua inglese: ciascun di loro aiuterà il compagno a raggiungere l’obiettivo che periodicamente dovrà essere prefissato, in virtù del fatto che essere buoni alunni spesso presuppone trasformarsi inconsapevolmente in piccoli maestri.

Abbiamo parlato di questo innovativo ed importante progetto con il Presidente di Jeremy, Davide Aletraris.

Come nasce il progetto Jeremy?

R – “Ha origine molto tempo prima di quanto si possa pensare: ho lavorato per sei anni con ragazzi autistici, ora invece avremo a che fare con bambini che non hanno disturbi psico-cognitivi, ma che, in base alle mie esperienze, hanno difficoltà ad inserirsi. Il progetto è nato proprio sei anni fa quando lavoravo con questi bambini ed ero anche tutor di inglese. Mi è venuto in mente così di unire le due funzioni, tutor ed insegnante, ma da pochissimo tempo, per la precisione quando sono stato a lavorare a Milano, in un contesto che era molto variegato. È stata un’illuminazione: ammetto che è difficile realizzare il tutto, essendo abbastanza innovativo, in una città come Pescara. Non voglio dire che ci metteranno i bastoni fra le ruote volontariamente, però forse sarà dura da far capire un’idea del genere. Il concetto è abbastanza profondo ed è preciso il motivo per cui abbiamo scelto di avere questa impostazione”.

Unire la conoscenza della lingua inglese e lo spettacolo teatrale: non si tratta dunque solo di insegnare una lingua straniera, ma di unire teatro ed insegnamento appunto …

R- “Cosa vuol dire imparare una lingua? Aristotele chiamava il meccanismo implicito del raziocinio “logos”: la corrispondenza tra pensiero e parola, se vogliamo anche la trasformazione del pensiero in parola. Perché usare il teatro? Perché è il modo più opportuno, a nostro giudizio, per far vedere quale sia la vera utilità di ciò che i bambini impareranno, stimolando in tale modo la parte della loro anima che il filosofo chiamava “logos”. I piccoli cioè impareranno ad usare una lingua e la lingua è pensiero ed il pensiero è vita: l’arte più vicina alla vita che l’uomo è riuscito a creare è una rappresentazione della vita e la rappresentazione per antonomasia è il teatro. Per questo motivo penso che la cosa sarà molto efficace perché i bambini vivranno la lingua. Chiunque abbia fatto il tutor di inglese sa che chi ha imparato solo attraverso la grammatica ha realmente poche possibilità di saper parlare bene. Per noi la lingua è vita e loro devono imparare a vivere, non solo recitando. Voglio che ogni bambino non sia solo un alunno ma anche un maestro”.

Il bambino che da alunno diventa maestro: come spieghi questo concetto?

R – “Cos’è la disabilità? Non è un muro, ma l’incapacità di fare ciò che si ama. Riguarda tutti noi: ognuno deve essere capace di superare le proprie disabilità. Io so di avere le mie, non le faccio vedere agli altri. Anni fa ho lavorato con bambini autistici, come ho detto in precedenza, e ce n’era uno che rifiutava di parlare ed io mi sono trovato all’inizio in difficoltà e pensavo che fossi proprio io il disabile e non lui, perché non riuscivo a farlo comunicare con me. Le mie azioni non riuscivano a raggiungere le intenzioni di partenza e allora ho capito: l’handicap è un qualcosa che è dentro di noi, se magari troviamo qualcuno che è capace di farcelo superare è incredibile. Il vero punto di forza è proprio questo: sapere mescolare l’essere un maestro e l’essere un alunno, far capire alle persone che non sempre i ruoli sono stabiliti. Bisogna avere una visuale ampia: la vera radice dell’insegnare è l’empatia che rende importante sia il maestro che l’alunno, è la calce che tiene in piedi il rapporto che diventa così biunivoco. Creare un legame forte e stare sullo stesso livello è fondamentale. Penso che la lingua inglese dovrebbe essere molto diffusa in realtà non lo è: questo è grave perché oggi come oggi è un collante fra le persone, se non conosci l’inglese sei tagliato fuori. Mi piacerebbe che questa città venisse fuori dal muro che ha arginato: sono stanco di accendere la tv e sentire Pescara come un luogo dove succedono episodi brutti, per una volta vorrei sentire che è un posto dove ci si attiva per fare una cosa come questa che vogliamo mettere in atto, bisogna smuovere le acque. È grave girare i posti e trovare la scritta “Here we speak english”: non dovrebbe succedere visto che Pescara è una meta scelta da tanti turisti stranieri, manca la mentalità per venire a contatto con questo senso di appartenenza europeo, siamo troppo legati all’essere abruzzesi, anche se indubbiamente anche questo è importante. La sfida è coinvolgere i bambini ed i genitori stessi. Se riusciamo a toccare determinate corde emozionali credo che potrà essere l’occasione per dimostrare che non ci sono solo persone “retrograde” a livello di spiritualità e percezione di progetti del genere. Sappiamo già che ci troveremo delle porte sbattute in faccia – interviene il vice presidente Fabrizio Carota – ma se si ha le idee chiare e ci si rivolge alla gente giusta, qualcosa di buono si può fare. Bisogna mettere molto amore nell’insegnare a bambini si deve pensare che alla fine saranno loro ad insegnare a noi. Ce la metteremo tutta per dare voce a chi crede di non averla”.

Il progetto è rivolto ai bambini: a tuo giudizio a che età un piccolo riesce realmente ad apprendere bene una lingua straniera come l’inglese?

R – “Sono stati fatti degli studi per i quali si è provato che i bambini, sin dall’età di tre anni quando iniziano ad avere le prime nozioni di linguaggio, sono dei veri e propri libri aperti e riescono ad assorbire ogni insegnamento. Mia nipote – interviene di nuovo Fabrizio Carota – ha quattro anni e già conosce i colori in inglese ed anche la sua pronuncia è buona. Noi ci rivolgeremo a bambini appartenenti a questa fascia d’età, ma, avendo a che fare con bambini con difficoltà, ci saranno anche altre attività utilissime, come ad esempio la piscina. Divideremo il corso per due fasce d’età, una prescolare e l’altra scolare, ovviamente con programmi diversi. C’è un grande problema a Pescara – torna a parlare Davide Aletraris – molte delle iniziative prese per insegnare inglese non sono state mosse dalla passione, ma per interesse. Se devo essere sincero finora io ho perso soldi, ma sono certo che quando la cosa funzionerà tutti si faranno sentire: non ne faccio una colpa alla mia città perché se non fosse così forse non avrei pensato al progetto. La mia è stata una reazione: non lo faccio ovviamente solo per questo. Voglio smuovere le acque in varie maniere: credo fermamente che l’ignoranza sia il primo vero fattore generante del razzismo, quest’ultimo è una piovra. È un concetto che si amplia e prende tutto: si parla di discriminazione o razzismo se si è zoppi o si sta su una sedia a rotelle, ma sempre quello rimane. Immaginiamo Pescara come una città in cui ci sono gruppi di bambini in certe condizioni che potranno insegnare. Vorremmo avere, all’interno dell’associazione, dei bambini che ci saranno a fianco come dei “micro tutor”. Ognuno di loro, avendo una certa esperienza e dopo aver fatto un percorso, potrà alla fine insegnare agli altri bambini. C’è un ragazzo che sta un po’ nell’ombra in questo progetto e che ha dato tantissimo per noi per rendere possibile la realizzazione: lui è sulla sedia a rotelle. È lui stato il nostro tutor!

In una società come quella di oggi ci sono bambini che hanno avuto come maestri altri bambini sulla sedia a rotelle e questo vuole essere il nostro spirito!”.